L’ultimo episodio il 17 maggio scorso: una mandria di orche ha attaccato uno yacht nello Stretto di Gibilterra. Se pensiate sia una cosa normale, beh non lo è per nulla: le orche non attaccano imbarcazioni, parola di Giancarlo Lauriano, ricercatore dell’Ispra, che ha argomentato sulla rivista Wired. Nel passato recente sono noti solo sporadici casi di cui il più famoso è quello accaduto ad Ambrogio Fogar nel 1978, ha chiosato.
Ma allora perché nello stretto iberico a volte può succedere?
Il primo attacco è datato maggio 2020. Gladis, così è stata ribattezzata l’orca ribelle, ha urtato contro il timone di una nave. Da quel momento gli scontri tra orche e imbarcazioni sono aumentati. Questa specie di orca nota come orca dello Stretto di Gibilterra o ancora orca del Golfo di Cadice è un cetaceo che abita le coste della Penisola iberica e del Marocco lungo l’Atlantico. A partire da quel 2020, le orche hanno speronato yacht, danneggiato navi e ferito membri dell’equipaggio dallo Stretto di Gibilterra alla Galizia. Gli episodi d’interazione con le imbarcazioni registrati a partire dal 2020 sono circa trenta.
Non è ancora chiaro il motivo, ed è presto per formulare una teoria, ma senza dubbio si tratta di una moda comportamentale. Parliamo di una tendenza che inizialmente si rivela o è visibile solo in un individuo, ma che poi inizia a diffondersi nel gruppo, diventando peculiarità di quella specie. Esiste una seconda teoria, che peraltro è perfettamente complementare alla prima: l’autodifesa di specie.
È infatti possibile che, come succede anche ai capodogli che si difendono vicendevolmente, si sia risvegliato un altruismo di autodifesa. Addirittura, alcuni immaginano che le orche stiano insegnando ai cuccioli come attaccare le imbarcazioni di quel tipo. Insomma, di certo non si tratta di una casualità: la frequenza sembra essere di un attacco al mese e vi è una preferenza verso una tipologia di imbarcazione: a vela e con un tipo di timone, dice Giancarlo Lauriano.
Per una volta il cambiamento climatico non c’entra. E soprattutto pare che il comportamento dei mammiferi muti in base alle esigenze. Secondo Lauriano le orche che vivono in quest’area interagiscono con le imbarcazioni da pesca al tonno, alimento di primaria importanza nella loro dieta, rubando il pescato. Questo comportamento, che non causa danno alle imbarcazioni, ma crea un conflitto con i pescatori della zona, è chiamato depredation ed è diffuso anche tra altre specie in altre aree del pianeta (in Italia accade con i Tursiopi). Oltretutto le orche di questa zona sono a rischio estinzione (solo 50 esemplari) e questo rende la situazione ancor più spinosa. Tornando dunque alle ipotesi elaborate dagli studiosi è possibile che ci sia stata una trasmissione di informazioni di pericolo dall’esemplare ferito nel 2020, verosimilmente da una barca simile a un peschereccio, e che gli altri esemplari del gruppo abbiano immagazzinato questa informazione e l’abbiamo inserita nel loro portfolio comportamentale. Gli esemplari coinvolti dovrebbero essere 15.
Dunque si è trattato della conseguenza di una fitta comunicazione tra esemplari, unita alla scarsezza di cibo e alla presenza invadente dell’uomo sotto forma di imbarcazioni. Senza dimenticare che lo Stretto di Gibilterra è un’importante rotta marittima in cui non sempre si rispettano regole su velocità e distanza, stressando ulteriormente la vita di questi animali. Le orche vivono in questo specchio d’acqua perché cercano specificamente tonno rosso, la cui presenza è crollata tra il 2005 e il 2010 a causa della pesca insostenibile. Così oggi soffrono la carenza di cibo e si rivoltano.
Secondo Lauriano: Finché gli esemplari non decideranno di interrompere l’interazione l’unica cosa possibile e utile è cercare di adottare azioni mirate a limitare il danno alle imbarcazioni. Il ricercatore si riferisce a misure di adattamento come ridurre la velocità, ammainare le vele, non operare sul timone (l’oggetto principale degli attacchi) e non cercare di contrastarne il movimento causato dalla spinta dell’orca.