Quando si parla di crisi del clima si guarda spesso verso il cielo oppure giù al suolo, mai oltre orizzonte, al mare. Ma più del 70% della superficie della Terra è ricoperta di acqua e questa massa liquida è cruciale per la vita e l’equilibrio del nostro pianeta. Anche del suo clima.
Il 40% di tutta la CO2 emessa ogni anno nel mondo da attività antropiche è assorbito dall’Oceano. Le sue correnti sono un termostato per le zone temperate: i primi 3 metri di mare contengono la stessa quantità di calore di tutta l’atmosfera.
Comprometterne il meccanismo di evaporazione e rilascio di umidità, cioè il ciclo dell’acqua, può portare all’intensificarsi di fenomeni di alluvioni, uragani o siccità estreme.
Con l’aumento della temperatura globale poi il grande nastro trasportatore che dai poli viaggia all equatore è sul punto di incepparsi. Se questo accadesse, l’intero pianeta subirebbe conseguenze drammatiche. La fusione dei ghiacci polari altera già oggi salinità e densità dell’acqua mentre le temperature sempre più alte con i gas serra disciolti ne modificano pericolosamente l’acidità.
I rifiuti che finiscono in mare sono solo di origine antropica: l’80% proviene dalla terraferma tramite spiagge e fiumi, il restante 20% dalle navi che spesso scaricano liquami e oggetti dove transitano.
Le correnti distribuiscono in maniera causale questi rifiuti sulla superficie dell’Oceano e nelle sue profondità.
L’inquinamento da plastiche è diventato uno dei problemi più urgenti.
Micro e macro plastiche rappresentano la principale minaccia per molte specie. Ogni anno si stima che 8 milioni di tonnellate di oggetti di plastica fluttuano negli oceani.
Anche fabbriche e impianti industriali scaricano i loro liquami e fluidi di altro tipo direttamente nei mari. Pesticidi e concimi utilizzati nell’agricoltura poi confluiscono nelle acque costiere provocando la riduzione dell’ossigeno o gravi fenomeni di eutrofizzazione che soffocano la vita dei fondali e causano la morte di piante e molluschi, base dell’alimentazione per tanti altri organismi.
L’ocean-grabbing è letteralmente l’accaparramento dell’oceano, cioè delle sue risorse naturali o minerali e poi ovviamente di tutto il suo patrimonio ittico.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite stima che un terzo delle riserve di pesce sono pescate al massimo delle capacità o addirittura pescate in eccesso.
Aldilà della fraudolenta caccia alle balene, squali, delfini e altre specie protette, oggi, si calcola che ogni anno sono pescati circa 100 tonnellate di pesce per alimentazione e allevamenti. Se la dinamica non sarà invertita, in pochi decenni scompariranno molte delle specie che oggi conosciamo.
Lo sfruttamento eccessivo impedisce alle differenti colonie ittiche di sostituire il pescato con nuovi nati e l’equilibrio delle popolazioni è compromesso per sempre. Inoltre, la raccolta indiscriminata aumenta in modo significativo lo stesso inquinamento perché la maggior parte della plastica in mare deriva dall’abbandono di attrezzature, come le famigerate ghost-net, reti fantasma.
Tutti insieme i fattori precedenti contribuiscono ad intensificare la perdita della biodiversità: la vita nell’Oceano. La biodiversità marina rappresenta la varietà di viventi a livello di geni, di specie, di popolazioni e di ecosistemi. Si basa su fragili equilibri.
Con le attività umane e il conseguente cambiamento del clima molte specie sono ormai a rischio. Le temperature dell’acqua sono aumentate, alterando la flora delle barriere coralline e la fertilità della fauna di molti bacini.
Ogni anno, processi interrelati come riduzione degli habitat, accumulo di inquinanti e surriscaldamento minacciano la vita in modo sempre più profondo e irreparabile.
E in mare la sopravvivenza di una singola specie può significare il destino di un intero ecosistema. Per di più, oggi milioni di esseri umani dipendono dalle risorse oceaniche per il loro sostentamento. L’uomo e il mare sono da sempre, indissolubilmente legati.
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