Lo Stretto di Gibilterra, per i marinai di ogni tempo e di ogni terra, non è un luogo qualsiasi. È un passaggio del tempo e dello spazio carico di significati e di leggende. E se si è cresciuti e s’è imparato ad andar per mare nel Mediterraneo, è anche una porta verso sfide più grandi, imprese e pericoli di scala superiore. Nessun navigatore ha mai varcato la prima volta lo stretto, senza avvertire almeno un piccolo brivido per ciò che lo aspettava oltre: l’oceano Atlantico.
Probabilmente non è un caso che la leggenda abbia scelto questo particolare punto del globo: qui due differenti correnti marine si incontrano, quella dell’impetuoso Oceano e quella più tranquilla del Mediterraneo, acque da cui anche Cristoforo Colombo è partito per poter cercare la sua rotta verso le Indie.
In cima alla rocca, ancora oggi, c’è un monumento che richiama le mitiche Colonne d’Ercole. Un’immagine e un simbolo che hanno sempre indicato due tipi di limiti umani: da una parte quello geografico e dall’altra quello della conoscenza umana. A lungo nella storia si è creduto che con esse finisse il mondo stesso e dunque ciò che era possibile conoscere e civilizzare. Oltre la Rocca di Gibilterra e la montagna Jabal Musa si pensava non ci fosse altra terra abitata, non si credeva che il mondo, così com’era conosciuto, potesse continuare. Un limite invalicabile.
Un confine che diventa anche una porta: chiunque poteva sfidare gli dei e scegliere di passare al di là di quelle colonne. Ma solo pochi osavano farlo. E chi realizzava questo sogno sapeva che prima o poi ne avrebbe pagato le conseguenze: come avrebbe ricordato secoli dopo anche Dante, immaginandosi l’ultimo viaggio di Ulisse.
È stato il poeta greco Pindaro a parlarne però per primo:
Il mito racconta del semidio Ercole, figlio di Zeus e della mortale Alcmena, che durante una delle sue dodici fatiche deve catturare i buoi di Gerione, un gigante con tre teste, tre corpi e sei braccia, nonché re dell’isola di Eritrea.
Per raggiungere il luogo, attraversa la Tracia, l’Asia Minore, l’Egitto per poi arrivare alle coste occidentali dell’Africa e a Gibilterra.
Qui i monti Calpe e Abila rappresentavano due frontiere che nessuno aveva mai osato oltrepassare, il limite del conociuto e anche del conoscibile.
Sulle loro rive, l’eroe dunque decide di erigere due colonne di marmo, una sulla in Spagna e l’altra in Africa, sormontate da una statua con l’iscrizione “Non plus ultra”: oltre non c’è più nulla.
La figura era rivolta verso est, cioè verso i navigatori, come ad avvisarli di non spingersi oltre per non incorrere nell’oblio. Per secoli ci si è rifiutati di affrontare il mare grigio, roboante e tempestoso che si estendeva al di là. Lo si immaginava popolato da mostri terrificanti come le Gorgoni e i Giganti Centimani o da razze bizzarre come i Cimmeri, gli Etiopi e i Pigmei; solo i Fenici, nell’antichità sfidano quelle acque alla ricerca di un mollusco da cui estrarre il colore più ambito dalle élite, la porpora.
Eppure, proprio l’esistenza un limite, ha sempre incuriosito e acceso al voglia di superarlo. Riuscire a esplorare e scoprire cosa potesse esserci oltre quelle Colonne d’Ercole ha sempre affascinato avventurieri, navigatori, artisti e scrittori. Tanto da diventare l’immagine stessa dell’impulso irrefrenabile che ci spinge talora a strapparci alla sedentarietà e a partire verso una meta ignota, seguendo un istinto che spesso non è razionale.